giovedì, ottobre 14, 2010

The Flight of Icarus (parte I)

da Emeroteca Italiana

Corriere della Sera, 24 settembre 1910

Testata Corriere della Sera
Origine Milano - Italia
Data di pubblicazione 24 settembre 1910

Il trionfale volo di Geo Chavez

Il prodigio è avverato. Il gran sogno, la magnifica utopia di ieri è divenuta realtà. L'uomo ha vinto. Il volo umano ha sorpas­sato le Alpi. Siamo ancora così stupiti, storditi, pal­pitanti che le cose vedute ci appaiono qua­si irreali o come delle allucinazioni mera­vigliose. La visione del volo ha sorpassato in gloriosa bellezza tutto quello che la nostra immaginazione aveva supposto. Sia­mo passati in poche ore attraverso le emo­zioni più intense e più vive. Non sappiamo trovare la calma necessaria per descrivere, e la nostra cronaca risentirà certo della confusione che è ancora nella nostra anima. La disgrazia che ha colpito l'eroico Chavez al momento di toccare il suolo italiano, una disgrazia che sarebbe potuta avvenire in qualsiasi aerodromo, non diminuisce la vittoria. Soltanto la rattrista. Il gran volo non perde il suo valore. Per esso le ultime barriere sono cadute avanti all'au­dacia dell'aviazione. Dopo il mare i monti. L'uomo stende le sue nuove ali e passa ovunque sul mondo, da nazione a nazione, signore dell'aria, dominatore dello spazio infinito. Il volo dell'uomo, così timido, così incer­to qualche anno fa, si è sollevato a poco a poco, è uscito dai recinti dell'aerodro­mo, è andato da villaggio a villaggio, poi da città a città, poi da provincia a provin­cia e sempre più alto, sicuro, ardito ha sorpassato gli ostacoli che per secoli ave­vano fermate le razze, respinte le invasioni, divisi i popoli. Il passaggio delle Alpi segna un avvenimento storica. Anche se non sarà imitato, Chavez ha provato che l'inverosimile volo è possibile. E tutte le conquiste umane sono dovute a uomini che hanno voluto realizzare quello che sem­brava assurdo. Il progresso di oggi in ogni campo non è che l'assurdo di ieri. Chavez è calato sulla nostra terra dalle nubi, come una divinità mitologica. E il disgraziato accidente dell'ultimo istante pare quasi voluto da una non so quale ostilità ineluttabile e intelligente per pro­vargli che era un uomo, fragile e dolo­rante. La sua sovrumana gioia del trion­fo si è spezzata in un brusco e dilaniante spasimo delle membra. Ma raccontiamo il momento dell'arrivo di Chavez e la disgrazia che ne seguì.

L'ARRIVO E LA CADUTA - Ad un chilometro da noi Chavez è ancora all'altezza di quattrocento metri. Duray sventola la sua gran bandiera bianca con una viva agitazione perchè teme che Chavez non veda i segnali. Il pubblico si è portato fuori dagli alberi e grida il suo entusiasmo, sventola i fazzoletti, agita i berretti e i cappelli. E' il commosso sa­luto che sale dalle nostre anime e che vo­la incontro al trionfatore. L'aviatore ha arrestato il motore: l'elica comincia a rallentare i suoi giri. Chavez è adesso a duecento metri d'altezza ed a quattrocento metri di distanza dalla bian­ca Croce di Lorena. Scende precipitosamente come un bolide ad una velocità da folgore, ma quando è a cento metri s'ac­corge che il campo è attraversato dalla strada che conduce alla Cascina. Per evitare di passarvi sopra colle sue fragili ruote, Chavez ridà l'accensione al motore e l'elica turbina ancora vorticosamente. L'apparecchio ri­prende per un momento la sua posizione orizzontale, poi l'accensione è nuovamen­te tolta al motore e Chavez ripiomba verso terra. Con la coda rialzata l'apparecchio passa davanti a noi all'altezza di dieci metri.

La gran Croce è già passata; Chavez vuol atterrare subito. È in questo momento che le ali, che evidentemente han trop­po lottato e resistito contro la violenza dell'aria di cui dovevano vincere la resistenza, si sono rialzate come se si staccassero dal capo. Un attimo dopo un urlo generale di terrore copriva lo schianto dell'apparec­chio che cessava di pulsare e che sotto la sua demolizione serrava il corpo inerte, forse senza vita, dell'uomo che ha segnato quest'oggi col suo gesto una data incan­cellabile nella storia del progresso. I primi accorsi furono il dottor Pio Fal­cioni, il pubblicista Gaggiotti, lo chauffeur Marino Sagliaschi che stavano vicino a Duray nel posto più avanzato della pra­teria; noi ci lanciammo sulle loro orme. Duray ha rivolto lo sguardo sulle rovine dell'apparecchio che non lasciava vedere l'aviatore e ritrasse il viso spaventato.

ATTORNO AL FERITO - Sono gli altri che si accingono all'opera di salvataggio febbrile. Sbarazzano le ali contorte, levano il giallo serbatoio sven­trato, e scoprono supino Chavez grondante sangue di sotto lo spesso casco di cuoio e di gomma che ha attutito per fortuna l'urto violento. Gli occhiali gli si sono pian­tati sotto gli occhi: nel naso, nelle lab­bra, per tutto il viso piccoli pezzi di vetro hanno dilaniato le carni. Il motore anco­ra intatto gli poggia contro una gamba, ma non gli si è abbattuto sopra. Quando apre gli occhi spaventosamente attoniti sembra cercare una persona amica e quando scorge Duray gli mormora: «C'est terrible! C'est terrible!» L'altro si rincuora e, vinta l'emozione, gli domanda come fu ed egli: «Taisez vous, taisez vous», come per impedire che gli rinnovi il terribile ricordo: evidentemente egli ebbe venti me­tri prima della catastrofe la visione della disgrazia!

I medici si affollano coi pietosi intorno all'aeroplano. Una ondata di pubblico non ascolta più le preghiere e gli ordini dei carabinieri e strabocca da ogni dove e si lancia sulla prateria. Tutti gli accorrenti sono affannati per l'angoscia della disgrazia tutti credono l'aviatore morto, intorno s'è formato un cerchio e nel mezzo solo i sanitari si affollano attorno al misero cor­po straziato. Tutti i presenti hanno sentito il naturale bisogno di levarsi il cap­pello come davanti ad una bara. Guardando in viso a molti colleghi, li vediamo piangere; scuotiamo il più vicino per confortarlo ed egli conforta noi: entrambi non ci eravamo accorti di avere le lacrime agli occhi.

La scena era troppo straziante. Non era passato un minuto che era volato sulle no­stre teste nella pienezza del suo trionfo ed ora giaceva lì immoto e dolorante, con la bocca piena di sangue. Con un fìl di voce prega che lo voltino alquanto per sbaraz­zarsene. D'intorno a lui sono intanto al­lontanati i residui dell'apparecchio e si è fatto un piccolo largo. Da una vicina ca­scina hanno portato un materasso, delle salviette, dell'acqua; da Domodossola è so­praggiunta l'automobile del Comitato con due altri medici e colle medicazioni.

LA FOLLA COMMOSSA - Sulla vettura dell'ingegnere Negretti vien issato un materasso e lievemente dopo una prima sommaria visita dei sa­nitari e una prima medicazione, l'auto­mobile parte. Fra la folla muta pensosa e triste, si incrociano le impressioni. Quelli che sopraggiungono si uniscono ai gruppi nu­merosi e bisbigliano chiedendo notizie. Avevano fatto di corsa i tre chilometri che separano dalla città come trasportati dall'immenso entusiasmo che il superbo volo aveva suscitato, quasichè il risucchio d'aria li avesse ingoiati. Tutta la città si sarebbe river­sata fin qui, ignara della disgrazia, per vedere il meraviglioso uomo quando avrebbe preso l'ultima partenza verso il trionfo che l'attendeva a Milano, se i primi auto­mobili coi giornalisti non li avessero av­vertiti del disastro e la curiosità chiassosa ed allegra si è cambiata in una desolata costernazione.

E QUI UNA CANZONE SUL TEMA (La mia preferita in assoluto degli Iron Maiden).

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