sabato, ottobre 17, 2009
venerdì, ottobre 16, 2009
Io, la mia scorta e il mio senso di solitudine
"LO VEDI, stanno iniziando ad abbandonarci. Lo sapevo". Così il mio caposcorta mi ha salutato ieri mattina. Il dolore per la protezione che cercano di farmi pesare, di farci pesare, era inevitabile. La sensazione di solitudine dei sette uomini che da tre anni mi proteggono mi ha commosso. Dopo le dichiarazioni del capo della mobile di Napoli che gettano discredito sul loro sacrificio, che mettono in dubbio le indagini della Dda di Napoli e dei Carabinieri, la sensazione che nella lotta ai clan si sia prodotta una frattura è forte.
Non credo sia salutare spaccare in due o in più parti un fronte che dovrebbe mostrarsi, e soprattutto sentirsi, coeso. Società civile, forze dell'ordine, magistratura. Ognuno con i suoi ruoli e compiti. Ma uniti. Purtroppo riscontro che non è così. So bene che non è lo Stato nel suo complesso, né le figure istituzionali che stanno al suo vertice a voler far mancare tale impegno unitario. Sono grato a chi mi ha difeso in questi anni: all'arma dei Carabinieri che in questi giorni ha mantenuto il silenzio per rispetto istituzionale ma mi ha fatto sentire un calore enorme dicendomi "noi ci saremo sempre".
Mi ha difeso l'Antimafia napoletana attraverso le dichiarazioni dei pm Federico Cafiero De Raho, Franco Roberti, Raffaele Cantone. Mi ha difeso il capo della Polizia Antonio Manganelli con le sue rassicurazioni e la netta smentita di ciò che era stato detto da un funzionario. Mi ha difeso il mio giornale. Mi hanno difeso i miei lettori.
Ma uno sgretolamento di questa compattezza è malgrado tutto avvenuto e un grande quotidiano se ne è fatto portavoce. Ciò che dico e scrivo è il risultato spesso di diversi soggetti, di cui le mie parole si fanno portavoce. Ma si cerca di rompere questa nostra alleanza, insinuando "tanti lavorano nell'ombra senza riconoscimento mentre tu invece...". Chi fa questo discorso ha un unico scopo, cercare di isolare, di interrompere il rapporto che ha permesso in questi anni di portare alla ribalta nazionale e internazionale molte inchieste e realtà costrette solo alla cronaca locale.
Sento di essere antipatico ad una parte di Napoli e ad una parte del Paese, per ciò che dico per come lo dico per lo spazio mediatico che cerco di ottenere. Sono fiero di essere antipatico a questa parte di campani, a questa parte di italiani e a molta parte dei loro politici di riferimento. Sono fiero di star antipatico a chi in questi giorni ha chiamato le radio, ha scritto sui social forum "finalmente qualcuno che sputa su questo buffone". Sono fiero di star antipatico a queste persone, sono fiero di sentire in loro bruciare lo stomaco quando mi vedono e ascoltano, quando si sentono messi in ombra. Non cercherò mai i loro favori, né la loro approvazione. Sono sempre stato fiero di essere antipatico a chi dice che la lotta alla criminalità è una storia che riguarda solo pochi gendarmi e qualche giudice, spesso lasciandoli soli.
Sono sempre stato fiero di essere antipatico a quella Napoli che si nasconde dietro i musei, i quadri, la musica in piazza, per far precipitare il decantato rinascimento napoletano in un medioevo napoletano saturo di monnezza e in mano alle imprenditorie criminali più spietate. Sono sempre stato antipatico a quella parte di Napoli che vota politici corrotti fingendo di credere che siano innocui simpaticoni che parlano in dialetto. Sono sempre stato fiero di risultare antipatico a chi dice: "Si uccidono tra di loro", perché contiamo troppe vittime innocenti per poter continuare a ripetere questa vuota cantilena.
Perché così permettiamo all'Italia e al resto del mondo di chiamarci razzisti e vigliacchi se non prestiamo soccorso a chi tragicamente intercetta proiettili non destinati a lui. Come è accaduto a Petru Birladeanu, il musicista ucciso il 26 maggio scorso nella stazione della metropolitana di Montesanto che non è stato soccorso non per vigliaccheria, ma per paura.
Sono sempre stato fiero di risultare antipatico a chi mal sopporta che vada in televisione o sulle copertine dei giornali, perché ho l'ambizione di credere che le mie parole possano cambiare le cose se arrivano a molti.
E serve l'attenzione per aggregare persone. Sarò sempre fiero di avere questo genere di avversari. I più disparati, uniti però dal desiderio che nulla cambi, che chi alza la testa e la voce resti isolato e venga spazzato via com'è successo già troppe volte. Che chi "opera" sulle vicende legate alla criminalità organizzata e all'illegalità in generale, continui a farlo, ma in silenzio, concedendo giusto quell'attenzione momentanea che sappia sempre un po' di folklore. E se percorriamo a ritroso gli ultimi trent'anni del nostro Paese, come non ricordare che Peppino Impastato, Giuseppe Fava e Giancarlo Siani - esposti molto più di me e che prima di me hanno detto verità ora alla portata di tutti - hanno pagato con la vita la loro solitudine. E la volontà di volerli ridurre, in vita, al silenzio.
Sono sempre stato fiero, invece, di essere stato vicino a un'altra parte di Napoli e del Sud. Quella che in questi anni ha approfittato della notorietà di qualcuno emerso dalle sue fila per dar voce al proprio malessere, al proprio impegno, alle proprie speranze. Molti di loro mi hanno accolto con diffidenza, una diffidenza che a volte ha lasciato il posto a stima, altre a critiche, ma leali e costruttive. Sono fiero che a starmi vicino siano stati i padri gesuiti che mi hanno accolto, le associazioni che operano sul territorio con cui abbiamo fatto fronte comune e tante, tantissime persone singole.
Sono fiero che a starmi vicino sia soprattutto chi, ferocemente deluso dal quindicennio bassoliniano, cerca risposte altrove, sapendo che dalla politica campana di entrambe le parti c'è poco da aspettarsi. Sono sempre stato fiero che vicino a me ci siano tutti quei campani che non ne possono più di morire di cancro e vedere che a governare siano arrivati politici che negli anni hanno sempre spartito i propri affari con le cosche. Facendo, loro sì, soldi e carriera con i rifiuti e col cemento, creando intorno a sé un consenso acquistato con biglietti da cento euro.
È stato doloroso vedere infrangersi un fronte unico, costruito in questi anni di costante impegno, che aveva permesso di mantenere alta l'attenzione sui fatti di camorra. È stato sconcertante vedere persone del tutto estranee alla mia vicenda esprimere giudizi sulla legittimità della mia scorta. La protezione si basa su notizie note e riservate che, deontologia vuole, non vengano rese pubbliche. Sono stato costretto a mostrare le ferite, a chiedere a chi ha indagato di poter rendere pubblico un documento in cui si parla esplicitamente di "condanna a morte". Cose che a un uomo non dovrebbero mai essere chieste.
Ho dovuto esibire le prove dell'inferno in cui vivo. Ho esibito, come richiesto, la giusta causa delle minacce. Sento profondamente incattivito il territorio, incarognito. Gli uni con gli altri pronti a ringhiarsi dietro le spalle. Molti hanno iniziato a esprimere la propria opinione non conoscendo fatti, non sapendo nulla. Vomitando bile, opinioni qualcuno addirittura ha detto "c'è una sentenza del Tribunale che si è espressa contro la scorta". I tribunali non decidono delle scorte, perché tante bugie, idiozie, falsità? Addirittura i sondaggi online che chiedevano se era giusto o meno darmi la scorta.
Quanto piacere hanno avuto i camorristi, il loro mondo, lì ad osservare questo sputare ognuno nel bicchiere dell'altro? Dal momento in cui mi è stata assegnata una protezione, della mia vita ha legittimamente e letteralmente deciso lo Stato Italiano. Non in mio nome, ma nel nome proprio: per difendere se stesso e i suoi principi fondamentali. Tutte le persone che lavorano con la parola e sono scortate in Italia, sono protette per difendere un principio costituzionale: la libertà di parola. Lo Stato impone la difesa a chi lotta quotidianamente in strada contro le organizzazioni criminali. Lo Stato impone la difesa a magistrati perché possano svolgere il loro lavoro sapendo che la loro incolumità fa una grande differenza.
Lo Stato impone la difesa a chi fa inchieste, a chi scrive, a chi racconta perché non può permettere che le organizzazioni criminali facciano censura. In questi anni, attaccarmi come diffamatore della mia terra, cercare di espormi sempre di più parlando della mia sicurezza, è un colpo inferto non a me, ma allo stato di salute della nostra democrazia e a tutte le persone che vivono la mia condizione. Sento questo odio silenzioso che monta intorno a me crea consenso in molte parti
Sta cercando il consenso di certa classe dirigente del Sud che con il solito cinismo bilioso considera qualunque tentativo di voler rendere se non migliore, almeno consapevole la propria terra, una strategia per fare soldi o carriera.
Ma mi viene chiesta anche l'adesione a un "codice deontologico", come ha detto il capo della Mobile di Napoli, il rispetto delle regole. Quali regole? Io non sono un poliziotto, né un carabiniere, né un magistrato. Le mie parole raccontano, non vogliono arrestare, semmai sognano di trasformare. E non avrò mai "bon ton" nei confronti delle organizzazioni criminali, non accetterò mai la vecchia logica del gioco delle parti fra guardie e ladri. I camorristi sanno che alcuni di loro verranno arrestati, le forze dell'ordine sanno in che modo gestire gli arresti che devono fare.
Lo hanno sempre detto a me, ora sono io a ribadirlo: a ognuno il suo ruolo. La battaglia che porto avanti come scrittore è un'altra. È fondata sul cambiamento culturale della percezione del fenomeno, non nel rubricarlo in qualche casellario giudiziario o considerarlo principalmente un problema di ordine pubblico.
Continuare a vivere in una situazione così è difficile, ma diviene impossibile se iniziano a frapporsi persone che tentano di indebolire ciò che sino a ieri era un'alleanza importante, giusta e necessaria. So che è molto difficile vivere la realtà campana, ma c'è qualcuno che ci riesce con tranquillità. Io non ho mai avuto detenuti che mi salutassero dalle celle, né me ne sarei mai vantato, anzi, pur facendo lo scrittore, ho ricevuto solo insulti. Qualcuno dice a Napoli che è riuscito a fare il poliziotto riuscendo a passeggiare liberamente con moglie e figli senza conseguenze. Buon per lui che ci sia riuscito. Io non sono riuscito a fare lo scrittore riuscendo a passeggiare liberamente con la mia famiglia. Un giorno ci riuscirò lo giuro.
© 2009 Roberto Saviano. Published by arrangement
with Roberto Santachiara Literary Agency
Sob sob...
"Barbie ha le caviglie grosse"
e lo stilista scatena la polemica
Il "maestro delle scarpe" Louboutin disegna una collezione per la bambola
e la Mattel è costretta ad assottigliare la silhouette: "Collo del piede troppo robusto"
giovedì, ottobre 15, 2009
mercoledì, ottobre 14, 2009
Aiutatemi a Capire...
ABRUZZO
Lettera agli aquilani dopo sei mesi.
Oggi è il sei ottobre 2009. Sei mesi dal sei aprile. Sei mesi, che sono un soffio e un’eternità insieme.
Un soffio, per chi prepara progetti e li mette in atto, scontrandosi con la realtà dei “tempi tecnici”
necessari per fare qualsiasi cosa. Un’eternità, per chi aspetta una normalità che sembra non arrivare
mai, costretto a una vita da rifugiato anche se ha scelto di vivere a pochi metri da casa, obbligato a
far passare il tempo senza avere il comando dei propri giorni per decidere come viverli.
Come capita sempre nella vita, a distruggere basta un attimo, per costruire serve tempo. Una città,
un territorio sono come una famiglia, un’impresa, una qualsiasi altra realizzazione sociale
dell’uomo. Quando l’amore non è coltivato ogni giorno, quando si lavora oggi senza pensare a
domani, quando si sta insieme per motivazioni che un giorno erano chiare, ma sulle quali non si è
avuto la prudenza di lavorare, qualsiasi crisi può sfasciare tutto quello che abbiamo costruito, su cui
abbiamo scommesso, che abbiamo considerato un bene acquisito una volta per sempre. Le famiglie
si dividono, le imprese falliscono. Comincia, inevitabile, una stagione di ripensamenti, spesso di
accuse agli altri perché non ci hanno capito, non hanno riconosciuto le nostre ragioni, hanno
mandato a rotoli i nostri progetti.
Chi resta da solo e senza risorse, chi si ritrova dall’oggi al domani senza lavoro, chi si accorge che il
racconto delle proprie esperienze di dramma, col loro strascico di paure e incubi notturni, ottiene
un’attenzione sempre minore, distratta, svogliata: sono queste le sole persone che possono capire
cosa sono sei mesi nella vita di chi se l’è vista distrutta.
Il terremoto, la distruzione: nulla è più come prima, niente lo sarà mai più. Il terremoto parte dalla
terra e arriva dentro ciascuno, dentro le famiglie, le comunità, le città, si installa come un ospite non
voluto che è impossibile allontanare.
Una presenza che cambia peso e intensità col passare dei giorni. I primi sono quelli del lutto, dei
soccorsi, dei senzatetto da mettere al riparo. Poi ci sono quelli della solidarietà, tra chi è venuto ad
aiutare e chi ha trovato rifugio, dell’accoglienza, della voglia di far festa per ogni piccolo segno di
vita buona, come una scuola che riapre o la nascita di un bimbo che diventa simbolo di speranza per
tutti. Poi ci sono i giorni duri del tempo che rallenta, delle televisioni che non hanno più inviati,
della routine dei campi che si vive con il fastidio crescente di essere come separati, da quei teli blu,
dal resto del mondo e dal proprio futuro. Adesso è il periodo del tempo che non passa, perché ogni
entusiasmo si è raffreddato, e ogni attesa provoca dolore, perché, costretti dalle cose ad essere
realisti, a guardare in faccia la realtà per com’è, arriviamo a non sopportarla più.
Anche i fatti positivi che pure accadono intorno a noi sono condivisi con riserva, se riguardano altri
e non il proprio futuro. Sono centinaia, dopo sei mesi, le famiglie che abitano case nuove e
confortevoli. Sono migliaia i ragazzi che hanno ripreso la scuola spesso in strutture realizzate a
tempo di record. Sono sempre meno coloro che ancora non hanno trovato una sistemazione buona
almeno per l’inverno. In sei mesi l’Italia intera ha partecipato a realizzare, all’Aquila, strutture che
in occasione di altri terremoti non si sono mai viste o hanno richiesto anni per essere completate. La
Protezione Civile e tutte le sue componenti e strutture operative, decine e decine di imprese al
lavoro, hanno trasformato L’Aquila e i Comuni del cratere in un cantiere aperto giorno e notte per
dare casa e servizi a un’intera città disastrata.
I primi risultati si vedono, sono concreti, sono reali, ma la realtà, che pure registra record assoluti di
tempestività ed efficienza, sembra sempre in ritardo rispetto al tempo della nostra impazienza, della
stanchezza che arriva alle ossa perché abbiamo bisogno di un’aria diversa per respirare, senza
misurarci ogni istante col tempo che, a seconda dei casi e dei ruoli, si traveste da soffio o diventa
eterno sulla nostra pelle.
Scrivo queste cose, a sei mesi dalla catastrofe, perché non mi sento ma sono aquilano, non mi sento
ma sono terremotato, perché vivo da quel giorno gli stati d’animo, le ansie e anche le speranze di
chi vive qui, nelle condizioni che il sisma del 6 aprile ha disegnato. Chi lavora con me da sei mesi,
impegnato ogni giorno per rimediare ai guasti del terremoto, vive questa contraddizione di sentire
che il tempo, i giorni, sono sempre troppo pochi e troppo lunghi, troppo pochi per arrivare a tutto,
troppo lunghi perché non si vede bene la fine del tunnel della precarietà nel quale nessuno, lo
abbiamo giurato a noi stessi, deve restare intrappolato.
Non siamo terremotati perché il sisma ci ha colpito ma perché abbiamo scelto di esserlo con gli
aquilani, siamo venuti da fuori e siamo rimasti, con l’idea forse banale e semplicistica che stava a
noi per primi non andarcene, restare e lavorare senza risparmio di energie per dire coi fatti ai
cittadini dell’Aquila che non erano soli, che lo Stato c’era e c’è, che il terremoto non ha lasciato
nessuno senza percorsi possibili verso un futuro vivibile.
Sono andato via dall’Aquila solo quando la tragedia, il disastro, hanno colpito altre parti d’Italia, a
Viareggio, a Messina in queste ultime ore. Viaggi da una catastrofe ad altre, da un dolore che
conosco ad altre sofferenze e altre amarezze. Per questo non ho bisogno di leggere i giornali, di
ascoltare dichiarazioni, di scorrere reportage, di prender parte al gioco inutile delle polemiche per
sapere che il nostro compito in Abruzzo non è ancora finito, che dobbiamo mettere in conto ancora
giorni e giorni passati lavorando senza badare alla fatica, spendendoci per limare un po’di tempo
all’eternità di chi aspetta e far stare più cose nel soffio di ogni giorno a nostra disposizione.
Chiedo al tempo, in questo giorno, di non impedirci di vedere ciò che abbiamo fatto e di gioirne,
insieme a quanti per primi sono arrivati a godere dei risultati dell’enorme sforzo che ogni giorno si
compie in queste terre.
Chiedo al tempo che ci conceda una sua piega, per ricordare quanta strada abbiamo fatto in sei
mesi, dai primi soccorsi alle esequie delle vittime, dalla visita del Papa alle decisioni del Governo
per far fronte all’emergenza, dal G8 ai piani per le nuove costruzioni, dalle prime case finite a
quelle che stanno sorgendo, dai giorni della mobilitazione solidale degli italiani fino all’oggi, che
vede ancora migliaia di persone al lavoro, che hanno stabilito con l’Abruzzo e la sua gente un
rapporto destinato a durare.
Chiedo al tempo, infine, di lasciarci vedere il termine dell’attesa. Abbiamo tutti fame di pace, di
cose finite, di impegni assolti. Abbiamo tutti fame di un buon futuro possibile e concreto, da usare
con un po’ di libertà. Lo so e lo sento, condivido, resto qui a condividere con quanti ancora devono
pazientare.
Il giorno in cui daremo una casa all’ultima famiglia che l’aspetta, potremo di nuovo imparare a
vivere il tempo nella sua semplicità, considerandolo nostro amico. Resto qui con voi, perché so che
quel giorno è vicino e credo in coscienza di aver conquistato il diritto e l’onore di viverlo insieme a
voi.
Guido Bertolaso
qui ci sono le informazioni della protezione civile sull'andamento dei lavori. http://www.protezionecivile.it/cms/view.php?dir_pk=395&cms_pk=16016
martedì, ottobre 13, 2009
lunedì, ottobre 12, 2009
Il Lodo deposto
Omaggio alle neo-mamme
domenica, ottobre 11, 2009
Le pubblicità più assurde di sempre
Pakistan International Airline pubblicizza nel 1979 voli diretti per New York
Pubblicità francese di salumi
Un avvertimento per a tutte le mogli che acquistano una marca di caffè differente dalla solita per il proprio marito.
«Sembra pulita, ma...».
Una pubblicità che promuove prodotti contro la sifilide.
Questa l'hanno fatta pensando al Vex
Gillette: «Comincia presto a raderti.»
«Soffiale nel viso e ti seguirà ovunque.» Queste non erano nell'articolo, ma direi che vi potrebbero entrar a pieno titolo
e pure queste segnalate qualche anno fa dal Vex:
http://compagniaindie.blogspot.com/2006/10/pubblicit-censurate.html
La fantasia non manca di certo ai pubblicitari ;-)