Hashima, l’isola di cemento
Storia, foto e video dell'isola giapponese che negli anni Cinquanta fu il posto più densamente popolato al mondo e oggi è un'attrazione turistica
In mare aperto, a 15 chilometri da Nagasaki, i palazzi di cemento
dell’isola di Hashima sono in rovina da 40 anni.
L’isola – all’estremità
meridionale del Giappone – fu
operativa dal 1887 come miniera di
carbone di proprietà della Mitsubishi Motors e diventò nel 1959 forse il
luogo più densamente popolato del pianeta (5.259 abitanti, pari a
83.500 per km quadrato). V
enne abbandonata del tutto nel 1974 quando
andò in crisi il mercato del carbone, rimpiazzato dal petrolio, e oggi è
un posto spettrale e spettacolare, visitato dai turisti.
Nel 1800 il legno ricavato dalle pinete – il principale combustibile
in Giappone – iniziò a scarseggiare e il carbone diventò la migliore
alternativa. Hashima fu una delle isole convertite in miniera al largo
di Nagasaki, dopo il successo ottenuto con la più grande isola di
Takashima. La Mitsubishi Corporation comprò Hashima nel 1890, tre anni
dopo la sua prima inaugurazione, acquisendo così l’intero comparto
minerario della zona.
Nel 1916 ad Hashima si costruì il primo grande “condominio” di
cemento in Giappone: sei piani, un cortile interno e alloggi privati per
le famiglie dei minatori, ognuno composto da una singola stanza con una
finestra e un’anticamera. Bagni e cucine erano invece comuni. Due anni
dopo, al centro dell’isola, fu realizzato un complesso residenziale di
nove piani, all’epoca il più alto del Giappone. Man mano che la domanda
di carbone aumentava, il numero di edifici in cemento cresceva:
divennero più di trenta. Hashima è nota anche con il soprannome di
Gunkanjima, “isola a forma di nave da guerra”, creato da un giornale per
via degli alti muri che tuttora circondano il perimetro, come scudo per
tifoni e mareggiate.
Durante la Seconda guerra mondiale, con i giovani giapponesi al
fronte, la miniera dovette impiegare manodopera coreana e cinese. Circa
1.300 lavoratori morirono per la fatica e la malnutrizione. Altri ancora
nelle correnti, cercando di scappare a nuoto. Le condizioni di vita
sono raccontate, in un’intervista del 1983, da uno dei minatori coreani
sopravvissuti: si viveva in otto in una stanza, sorvegliati
costantemente da guardie giapponesi armate di spada e costretti a
lavorare in spazi angusti sotto terra, col rischio che i muri della
miniera crollassero da un momento all’altro: «Ero convinto che non avrei
mai lasciato l’isola vivo».
La densità massima fu raggiunta nel 1959: 83.500 abitanti per km
quadrato. Una città compressa, con scuole, una palestra, un cinema, 25
negozi, bar, ristoranti, templi, un ospedale e un bordello.
Un labirinto
di cemento in cui gli alloggi erano divisi secondo precise gerarchie
sociali: i
lavoratori non sposati nei monolocali, quelli
sposati nei
bilocali con bagno e cucina in comune, il
personale amministrativo e gli
insegnanti in bilocali con cucina e bagno inclusi. Solo
il manager
della miniera aveva diritto a una casa indipendente.
Le difficoltà di gestione non erano diverse da quelle di qualsiasi
altra piccola isola abitata forzatamente: cibo, vestiti e – fino al 1957
– acqua potabile dovevano essere portati dalla terraferma. Durante le
tempeste Hashima era isolata. Il suolo arido non permetteva di
coltivare, tanto che nel 1963 gli abitanti si ingegnarono portando
terriccio da fuori e creando orti sui tetti. Frigoriferi e televisioni
arrivarono nello stesso periodo.
Alla fine degli anni Sessanta il mercato del carbone crollò e le miniere
iniziarono a chiudere. Anche Hashima progressivamente perse lavoro e il
15 gennaio 1974, con una cerimonia ufficiale di chiusura nella palestra
locale, fu abbandonata: l’ultimo lavoratore partì il 20 aprile dello
stesso anno.
In costante decadimento,
Hashima è diventato un simbolo dello
sfruttamento su larga scala delle risorse energetiche e della sua
dipendenza dagli alti e bassi del commercio internazionale, tanto da
essere usata come immagine nelle pubblicità-progresso del governo contro
gli sprechi. Ma anche
della velocità con cui lo sviluppo urbano
deperisce una volta abbandonato dall’uomo, come mostra un episodio della
serie di History Channel
Life after people (un altro
video interessante è qui).
2 gennaio 2013