CULTURA POLITICA, DIBATTITO PUBBLICO
Uno spettacolo desolante
Se s i s o l l e v a l o sguardo dalla congiuntura delle cronache giornalistiche quotidiane, e si guarda al quadro d’insieme, lo spettacolo sovrastante gli avvenimenti degli ultimi mesi — crisi della maggioranza di governo, eventualità di elezioni anticipate, prospettive di evoluzione della situazione — è desolante. Solo l’insipienza della classe politica, la programmatica malafede di certi media, un’opinione pubblica frastornata, e ormai incapace di discernere, potevano ridurre a una questione fra berlusconismo e a n t i b e r l u s c o n i s m o l’inattualità delle istituzioni, l’inconsistenza della cultura politica nazionale, la fragilità del sistema politico che ne sono emersi. L’intero spettro delle regole, dei principi e degli istituti che sono a fondamento della nostra vita politica si sono sfarinati, mentre troppi italiani si comportano come degli ultras in uno stadio di calcio. Non si illudano berlusconiani e antiberlusconiani di far uscire il Paese dal tunnel nel quale lo hanno cacciato semplicemente prevalendo gli uni sugli altri.
Se Berlusconi vincesse anche le prossime elezioni, si riproporrebbe lo stesso scenario: gli italiani divisi non sul «che fare» e «come farlo », ma sulla persona del capo del governo e i suoi problemi personali. Se a vincere fosse l’opposizione, nulla cambierebbe ugualmente; si esaurirebbe, con la fine dell’antiberlusconismo, anche la sua stessa forza propulsiva e verrebbero a galla le sue carenze culturali e politiche. Che piaccia o no, la lunga, e sterile, contrapposizione frontale fra berlusconismo e antiberlusconismo è stata l’ultima versione della storica incapacità dell’Italia di essere popolo, nazione. Anche la Francia e l’Inghilterra hanno vissuto periodi di aspre lotte interne che, a volte, hanno messo in discussione la legittimità del potere politico del momento, ma ne sono sempre uscite perché fondate sulle secolari tradizioni di una comunità che è, innanzi tutto, popolo, nazione, prima che Stato; comunità di fini etico-politici divisa solo sui mezzi tecnico-politici per raggiungerli. La Magna Charta inglese è del 1215! L’inattualità delle istituzioni — inadeguate a far fronte alle ricorrenti crisi del sistema politico con procedure chiare ed efficaci — è la bandiera del conservatorismo della sinistra. Che, per difendere lo status quo, si aggrappa alla difesa di regole antiquate, figlie di un mondo che non c’è più. Forse, la sinistra non ha neppure un reale interesse a vincere le elezioni perché già soddisfatta del controllo che esercita su alcuni dei settori chiave della società civile, come la scuola e l’università, lamagistratura, gran parte dei media e dell’editoria, nonché del mondo intellettuale. Una volta al governo, essa deve fare i conti col rivendicazionismo corporativo di quegli stessi settori che ne è la vera forza finché è all’opposizione. Alle doti di equilibrio del presidente della Repubblica si fa, così, carico della responsabilità di tenere in piedi il barcollante edificio democratico, attribuendogli poteri che non ha e una impropria funzione di supplenza della classe politica, incapace di assolvere la propria funzione. È la sostituzione della politica col diritto da parte dei nostri azzeccagarbugli istituzionali.
L’inconsistenza della cultura politica nazionale è l’autentica cifra del centrodestra; ne condiziona la capacità di dar vita al cambiamento promesso, e mai attuato, e di produrre «politiche» davvero modernizzatrici. È anche l’indotto delle corporazioni, degli interessi organizzati, ai quali il suo leader è tutt’altro che insensibile. Non condiziona il centrosinistra perché è proprio su tale inconsistenza culturale che esso fonda la difesa dello status quo in sintonia sia con la propria inclinazione anti-individualista e anti-capitalista, sia con la vocazione anti-modernista degli italiani. La diffusione di una cultura politica autenticamente liberal-democratica è bloccata perché metterebbe a rischio gli interessi corporativi dell’establishment intellettuale. Che boicotta ancora la storiografia liberale (i libri di Rosario Romeo su Cavour e sul Risorgimento) anche alla vigilia delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, in nome di una sua lettura classista, come «rivoluzione contadina mancata», smentita già dal precedente della stessa Rivoluzione francese. Che fu cittadina, parigina, non contadina. La programmatica malafede di alcuni media a larga diffusione impedisce letteralmente la crescita di un’opinione pubblica bene informata e, soprattutto, capace di farsi un’idea fondata sui fatti e verificabile nella realtà. Il popolo di destra e quello di sinistra — che leggono più volentieri i giornali che li confermano nei loro pregiudizi, che gli stessi giornali hanno creato, in una sorta di circolo vizioso quanto surreale, già sperimentato dall’Unità, il quotidiano del Pci, quando era filo-sovietico — vivono una realtà «virtuale» rappresentata, per il popolo di centrodestra, dalle (continue) promesse e dalle (inespresse) virtù taumaturgiche del capo; l’altra, per il popolo di centrosinistra, dalla sua demonizzazione. È nata, così, una nuova figura di italiano che, oltre al proprio «particulare», ubbidisce a un riflesso condizionato di natura emotiva, pro o contro Berlusconi. Un perfetto prodotto del marketing ideologico da parte di un giornalismo che non si prefigge di informare, né di giudicare con onesta coerenza, ma di creare, e addestrare, l’uomo nuovo: l’idiota di parte. Che, a destra, non vota per «una certa idea dell’Italia», ma contro la sinistra, e a sinistra non vota contro la destra— che, forse, voterebbe volentieri se non ci fosse il Cavaliere e non fosse poi troppo innovativa —ma contro una persona, senza chiedersi quale sia il Paese nel quale vorrebbe vivere, quali siano i propri diritti, i propri interessi. Un suddito. Ma—ha scritto Norberto Bobbio — «la democrazia ha bisogno di cittadini attivi. Non sa che farsene di cittadini passivi, apatici e indifferenti». Di tutto ciò dovrebbero, dunque, discutere una classe politica e un sistema mediatico degni di questo nome. Invece, l’immagine che il Paese «ufficiale» proietta di sé —il Paese «qualunque», dell’uomo della strada, è migliore, anche se incapace di reagirvi— è quella di un mondo che degrada, più velocemente di quanto già non si pensasse, verso una sorta di versione (meta-politica, ontologica) dell’Antico Regime, pietrificato come è nel proprio conservatorismo e prigioniero dei propri ritardi culturali.