Addio Bearzot, il ct mundial
che non cercava gli applausi
Si è spento a 83 anni, era da tempo malato.
Un italiano di confine, più di campo che di palazzo.
Amava Ovidio e il jazz
E così, anche il Vecio. Enzo Bearzot era da tempo un cittadino di se stesso, e non più del mondo che aveva conquistato. Non usciva dal suo fortino dal 2007, quando la Gazzetta, per i suoi 80 anni, gli aveva fatto trovare in via Solferino una «torta» di campioni: i suoi. La moglie, Luisa, ne proteggeva il dolore, la fatica, i ricordi. La solitudine, soprattutto. Era nato ad Aiello del Friuli il 26 settembre del 1927. Terra generosa di sport e con lo sport, il Friuli: Primo Carnera e poi Ottavio Bottecchia, trevigiano di culla ma furlan di bicicletta, e quindi la tribù del calcio, quasi una cantilena di formazione, Zoff, Burgnich, De Agostini, Collovati, Blason, Tumburus, Fanna, Capello, Virgili, Vendrame, Pascutti. Allenatore, Annibale Frossi. Una vita da mediano, Enzo, prima che arrivasse a cantarla il Liga: Pro Gorizia, Inter, Catania, Torino, ancora Inter, ancora Toro. In tutto, 422 partite, di cui 251 in serie A, quando le sostituzioni non c'erano.
Un mediano ortodosso, normale, che ogni tanto prendeva su e si buttava sulle fasce. Cominciò marcando Silvio Piola, finì correndo dietro a Sandro Mazzola e Jair. E mai un tunnel, dicasi uno, da parte di quella vipera di Omar Sivori, questa sì una medaglia al valore. La Nazionale, che sarebbe diventata la bussola della carriera (e non solo), da giocatore si ridusse a una striminzita presenza, novembre 1955 a Budapest, la grande Ungheria: Bearzot a uomo su Puskas, zero a zero fino all'80', poi Puskas e Toth II, due a zero.
La pipa sarebbe venuta dopo, in tempo per arredare la mutria e dargli l'unica cosa di cui non sentiva la necessità: un tono. In principio fu il naso, quel naso un po' così, caro alla prosa di Giovanni Arpino: «Un calcio durante lontane risse in area di rigore, aveva schiacciato il setto nasale del Vecio, che ora ostentava la maschera sorniona d'un pugile in guardia perenne». Maschera fino a un certo punto. Quello era e sarebbe stato, sempre, Enzo Bearzot. Un italiano di confine e dunque al limite, più di campo che di palazzo, più Cecco Beppe che inciuci democristiani, un tipo che amava Ovidio e il jazz, devoto al gruppo e refrattario al gregge. Luoghi, non luoghi comuni. Un anti italiano tutto spigoli: «in guardia perenne», appunto. Il tecnico nacque all'ombra di Nereo Rocco, al Toro; un po' di Prato, in senso geografico e letterale, e, alla fine della giostra, le gonne della Federazione come scelta estrema e rampa di lancio. La gavetta fu severa, oscura. Il disastro tedesco del 1974, con gli eroi messicani strafavoriti e fuori al primo turno, contribuì a spianargli la strada. A ceneri ancora calde, affiancò Fulvio Bernardini e quindi gli subentrò, commissario unico. Sembrava un atto dovuto, un timbro essenzialmente notarile. Viceversa, più che una mossa risultò una scossa.
C'era da ricostruire. Le frontiere chiuse gli diedero un mano. Erano gli anni Settanta, gli anni di Juventus e Torino. Bearzot modellò la Nazionale sui loro blocchi, bianconeri titolari, granata riserve. Sul piano squisitamente estetico, meglio gli azzurri d'Argentina che i «campeones» spagnoli, ma il calcio non è una scienza, quarti i più belli, primi i più concreti. Non che se la passasse male, visto che come ala destra poteva scegliere fra Causio, Claudio Sala e Bruno Conti. In compenso, passava per un difensivista, visto che per convinzione - e per convenzione - erano le stagioni, quelle, del catenaccio. Italiano? Allora, catenacciaro. Catenacciaro un corno: un libero come Scirea, cioé piedi rubati al centrocampo, più Cabrini, più Conti più Antognoni più due punte. Tu chiamale, se vuoi, etichette. Il Vecio non è stato né un santo né un eroe. Detestava i protocolli, la ricerca spasmodica del consenso. Era uno contro: Italo Allodi e il suo vincerenonimportacome; i mandarini federali; la geopolitica.
Il Mondiale bearzottiano del 1982 fece da spartiacque anche a livello giornalistico e di pubblica opinione. Il silenzio stampa di Pontevedra, quartier generale degli azzurri in Galizia, non sarebbe mai stato adottato, se non avesse prodotto, subito, il miracolo di un titolo, e che titolo. La sindrome d'accerchiamento religiosamente invocata, cercata e predicata da Arrigo Sacchi a Marcello Lippi non sarebbe diventata un'esigenza ambientale e quasi spirituale se, inaugurata da Enzo con il concorso esterno, e greve, della stampa italiana, non avesse cementato il gruppo accentuandone le risorse e il rendimento. Infine, la cesura di risultati fra la fase di Vigo (tre pareggi) e il crescendo rossiniano con Argentina, Brasile, Polonia e Germania spinse i direttori a piazzare in prima pagina, accanto al commento di stroncatura, un «fondo» di solidarietà, all'inizio piccolo e poi sempre più ampio fino all'apoteosi di Madrid, sera in cui tutti salirono sul carro, a cominciare da coloro che avevano gridato al destino cinico e baro per aver fatto nascere Bearzot di qua e non di là, in Austria. Perché sì, questa era l'aria che tirava.
La celebre partita a scopone di Bearzot con Pertini in aereo
Una sola ombra, su quel Mondiale. Da un'inchiesta di Oliviero Beha e Roberto Chiodi emerse che il Camerun avrebbe venduto la partita contro di noi. Venduto a chi: alla federazione, agli sponsor? Il Vecio era furibondo, ogni volta che si toccava l'argomento. La grandezza di Enzo era che faceva di tutto per inimicarsi tutti. Il sacrificio di Evaristo Beccalossi gli costò lo «scimmione» di una tifosa. La rinuncia a Roberto Pruzzo gli scatenò le penne all'arrabbiata di tutta Roma. Lui, zitto e dritto. Aspettò Paolo Rossi al di là di ogni umana sopportazione. Pagò la gratitudine verso il nucleo storico agli Europei '84 (fuori nelle eliminatorie) e ai Mondiali '86 (fuori negli ottavi). Piano piano, è scivolato ai margini del sistema. Dimenticato, e forse dimenticatosi. «La melassa soffoca», parole sue, e, per questo, non ha mai amato le celebrazioni. In compenso, non c'è uno di quella covata e di quella spedizione che non ne abbia amato il senso etico, la coerenza spinta all'eccesso di velocità (e rispettabilità). Erano altri tempi, certo. Ma anche altri uomini. Le partite, ha continuato a guardarle ad audio rigorosamente azzerato. Era fatto così. Molto meno italiano del portoghese Mourinho. Un solitario grande, non un grande solista. Uno che aveva perso il padre quando giocava in Sicilia e la madre quando si trovava per lavoro in Olanda. A Gianni Mura che gli chiese come gli sarebbe piaciuto essere ricordato, rispose: «Come una persona perbene».
Missione compiuta, Vecio.
22 dicembre 2010
da lastampa.it
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