... ce la possiamo anche fare.
Basta solo calcolare quanto si spendeva di SMS & (soprattutto) MMS prima.
E per il numero della carta, basta usare delle prepagate o altre forme simili.
E per il numero della carta, basta usare delle prepagate o altre forme simili.
Su segnalazione di Marghe...
WhatsApp a pagamento,
la rivolta degli utenti
Le proteste: dopo un anno il servizio di messaggistica non è più gratuito. «È come il canone Rai, boicottiamolo»
«Cos'è il canone della Rai?». «Nulla contro le app a pagamento, ma dovrebbero esserlo fin da subito e non diventarlo in seguito… Per me è una cialtronata». «Non è la cifra il problema, ma il dover dare i dati della carta di credito. Cosa che il 99% degli utenti Android non credo abbia mai fatto». Questi i toni dei commenti che stanno affollando in queste ore i forum di telefonia e la pagina di download di WhatsApp su Google Play, negozio di applicazioni per Android.
Il programma di messaggistica fra smartphone via Internet impone a chi possiede un dispositivo con il sistema operativo del robottino verde il pagamento di una tassa annuale dopo i primi 12 mesi di utilizzo. Nell'ultimo aggiornamento, si fa riferimento in maniera specifica alla possibilità di acquistare l'estensione temporale del servizio: "in-app purchase" è il termine tecnico che descrive la necessità di mettere mano al portafoglio in un secondo momento. Il canone, equiparato da un adirato commentatore a quello della tv di Stato, è di 0,79 centesimi. Oltre ai telefoni cellulari intelligenti Android, sono coinvolti nella novità anche i Blackberry e i dispositivi con os Windows. Tutti casi in cui il primo download non comporta alcun costo. Chi ha un iPhone ha invece dovuto sborsare subito 0,89 centesimi, pedaggio (fino a nuovo ordine) una tantum.
L'approccio differente si deve alle diverse abitudini dell'utenza, come sottolineato nel terzo commento citato: chi si avvicenda sull'App store della Mela è tradizionalmente più abituato a pagare per scaricare le iconcine colorate. Per emergere nel marasma delle applicazioni gratuite presenti su Google Play, i genitori di WhatsApp, Brian Acton e Jan Koum, hanno evidentemente individuato in un anno il periodo necessario per assicurarsi la fedeltà degli utenti. E vista la mole di messaggi in verde, hanno avuto ragione: lo scorso 31 dicembre è stato annunciato il raggiungimento di quota 18 miliardi di scambi al giorno. Di fornire il servizio gratuitamente e provare a fare cassa con i messaggi pubblicitari, i due hanno sempre messo le mani avanti, non se ne parla. Secondo Acton e Koum, accomunati anche da un passato in Yahoo!, le sponsorizzazioni rappresentano «un insulto all'intelligenza dell'utente». Le condizioni di acquisto in esame sono spiegate chiaramente nella descrizione sui vari negozi digitali e sul sito ufficiale della soluzione, ma la ricezione dell'avviso della scadenza del periodo gratuito non è stata comunque accolta di buon grado. «Mi mancano sette giorni al rinnovo e già non funziona più… parliamone», fa notare un utente. «Questa storia del pagamento non mi piace. Chi possiede un Apple paga una sola volta, io invece mi ritroverei a pagare quella cifra ogni anno. Non trovo giusto l'atteggiamento», aggiunge un altro, che ha evidentemente scoperto da poco la novità.
Su Twitter c'è chi propone uno spostamento di massa su WeChat, alternativa di origine cinese, e sui forum si parla di ChatOn, sistema di messaggistica griffato Samsung, e Viber, piattaforma mediante la quale è anche possibile (tentare di) telefonare appoggiandosi alla Rete. Ci sono anche Line e Facebook Messenger, ma, come fa notare un internauta, WhatsApp conta su una base utenti consistente che lo rende veicolo preferenziale per raggiungere la maggior parte dei propri contatti. E, fra un protesta e l'altra, c'è anche chi reputa la cifra richiesta ragionevole in considerazione del lavoro degli sviluppatori e dell'assenza di pubblicità. Ma i problemi, passeggeri nel caso sovracitato, non finiscono qui: le autorità canadesi e olandesi di protezione della privacy hanno puntato il dito contro l'accesso indiscriminato da parte di WhatsApp all'intera rubrica di chi si iscrive. Solo l'ultima versione per iPhone consente di caricare manualmente i contatti da inserire nella lista dell'applicazione, mentre gli altri sistemi operativi lasciano che sia WhatsApp a scandagliare la rubrica - e a registrare i numeri di telefono dei potenziali utenti - per individuare chi ha già scaricato il servizio. I creatori dell'app si sono impegnati a risolvere il problema, ma non hanno ancora fornito lumi sui tempi.
29 gennaio 2013
da corriere.it
WEB A PAGAMENTO
Da WhatsApp ai social network
Internet sempre più a pagamento
Dopo YouTube e Twitter, quelle tariffe che spiazzano gli utenti
«Fai in modo che si abituino ad avere un servizio gratis. E poi chiedi loro di pagare per continuare ad averlo».
La strategia di marketing è chiara: prima rendere l’utente dipendente da un’app o da una piattaforma. Poi, quando questo non ne può più fare a meno, gli si impone un canone. Un «ricatto», forse, che a molti non piace. Nativi digitali in testa. Capita, sempre più spesso, anche con una delle applicazioni più scaricate al mondo: WhatsApp. Il servizio di messaggistica è gratuito. Una volta scaricato sullo smartphone, permette di chattare senza pagare un costo aggiuntivo. Tutto risolto? No, perché dopo un anno di utilizzo l’applicazione diventa a pagamento, sia per gli utenti Android (79 centesimi all’anno) che per quelli iOS (0,89 euro). «Cos’è? Come un canone Rai», si lamenta qualcuno su Google Play. «Boicottiamolo», scrive un lettore a Corriere.it. Ma c’è anche chi sottolinea: «Le condizioni del servizio sono indicate chiaramente. Quindi non lamentatevi. E in più la cifra richiesta è ridicola a confronto con quello che si spende per gli sms». Già, i termini del contratto sono chiari.
Le compagnie sanno che i servizi a pagamento sul web sono impopolari e procedono per tentativi. Se si accorgono che i download calano, rimettono in circolazione solo la versione gratuita dell’applicazione ed eliminano quella con il canone posticipato, in modo da acquisire nuovi utenti. Il tutto creando grande confusione. Soprattutto se si pensa che piattaforme come YouTube, DropBox, Linkedin o Gmail sono diventati ormai strumenti di lavoro, indispensabili per comunicare con i propri contatti. «Il problema sono i ricavi pubblicitari», spiega Marta Valsecchi dell’osservatorio Mobile e Web del Politecnico di Milano. «Il servizio deve essere sostenibile per le software house. Una volta lanciato il prodotto, se le inserzioni sono insufficienti, viene introdotto il canone per fare cassa». Il trucchetto però non sempre funziona: «Soprattutto i giovani sono abituati ad avere tutto gratis in rete, dai film, passando per le canzoni fino ai servizi di chat. Quindi non sono disposti a pagare». È un attimo e il pensiero corre al dibattito scatenato negli Usa dallo Stop Piracy Online Act (la proposta di legge contro la pirateria in rete). Secondo molti, in testa gli hacktivist, è giusto che alcuni servizi siano gratuiti. Perché aiutano a diffondere le informazioni. E perché permettono la condivisione del sapere. «Inoltre, se la concorrenza in rete è tanta, ci sarà sempre qualcuno pronto a offrirti gratuitamente la stessa cosa che tu proponi a pagamento», continua Valsecchi.
Gratis però non è sempre sinonimo di qualità. Il rischio è infatti — avviene con Facebook — che l’azienda non faccia pagare nulla ma poi utilizzi i dati sensibili dei suoi utenti per fare profitto. Non a caso è successo anche con WhatsApp, di recente tacciata di acquisire tutti i nomi della rubrica telefonica dei suoi iscritti. Così come Facebook viene accusata, ormai ogni giorno, di non rispettare la privacy degli utenti. Non appena però Menlo Park parla di introdurre un canone, fosse anche solo per inviare i messaggi privati a contatti vip, gli iscritti minacciano la fuga. E stessa cosa succede per Twitter, dove i trending topic a pagamento fanno venire l’orticaria ai puristi dei 140 caratteri. Stallo alla messicana, lo chiamerebbe il regista Quentin Tarantino. Il cane che si mangia la coda per quelli che non amano il genere pulp. La strategia per uscirne? «Molti si rifiutano di pagare perché hanno paura di dare il proprio numero di carta di credito. Sarebbe sufficiente legare il canone del servizio all’abbonamento del telefono e gli utenti diventerebbero più disponibili», conclude Valsecchi. Ma siamo davvero sicuri che basterebbe solo questo?
31 gennaio 2013
da corriere.it