da www.corriere.it
I RICCHI E GLI EVASORIFra i «danni collaterali» prodotti dalla schizofrenica politica del centrodestra e dall'assenza di una opposizione riformista di centrosinistra, c'è la metamorfosi del linguaggio della politica, di quello dei media in generale e persino dei fiancheggiatori dell'uno e dell'altro schieramento. È passato dalla difesa di alcuni principi liberali - la tutela della privatezza, il rispetto per l'autonomia dell'individuo, la certezza del diritto, il governo della legge, la condanna del cambiamento delle regole mentre si gioca, per non parlare del contenimento della spesa pubblica e della riduzione della pressione fiscale - alla loro negazione, all'elogio di forme di propaganda demagogica che rasentano il lessico dei totalitarismi di destra e di sinistra del secolo scorso. Un caso di regressione e di degrado civili, oltre che culturali e politici.
L'Unione Europea ha fornito al Cavaliere un assist formidabile, consigliandolo di fare quelle riforme di struttura che aveva messo nel suo programma del '94. Il governo non solo non lo ha raccolto ma ha scatenato, con la complicità dei media, una caccia all'«untore», il «ricco», identificato tout court con l'«evasore». Tremonti, che ripete che «anche i ricchi devono pagare le tasse», non si limita a proclamare un principio ovvio per un ministro delle Finanze, bensì fa un'affermazione che puzza di demagogia lontano un miglio, che non fa onore né alla sua intelligenza né alla sua cultura e suona più una giustificazione dell'incapacità del governo di fargliele pagare che un programma di rigore fiscale, che andrebbe fatto con serietà. I dati di ieri fanno riflettere.
Nel giro di qualche settimana, la «comunicazione» governativa ha attribuito la crisi - che è della finanza pubblica nazionale, oberata da uno Stato costoso, sprecone e oppressivo - alla «speculazione internazionale», che ne è invece il sintomo; e, una volta constatato dai sondaggi che gli italiani non la bevevano, la fa risalire, ora, all'evasione fiscale. Ma, dopo aver indicato una serie di misure, il governo le sta parzialmente correggendo. Cancellata infatti la parte più ruvida della manovra, come l'idea di mettere alla berlina le dichiarazioni dei redditi (già pubbliche) o di imporre l'identificazione dei conti correnti nelle dichiarazioni. L'ipotesi di poter agganciare le condizioni di vita a un reddito eventualmente non dichiarato si rivela impraticabile.
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Che senso logico e finanziario avrebbe l'aumento dell'Iva - che, stante le cose come stanno, pagherebbero solo produttori e consumatori del Nord - quando al Sud l'«evasione collettiva» della stessa imposta raggiunge picchi di quasi il 90 per cento ed è tollerata, se non incoraggiata, dalla politica come stabilizzatore sociale e/o utilizzata come voto di scambio? Quale è la logica politica di un governo, e di un'opposizione, che cercano altrove le ragioni del disastro finanziario pubblico, attribuibile, invece, oltre che alle follie dell'antico consociativismo - ancora riproposto recentemente come «governo di unità nazionale» - alle mancate riforme degli ultimi vent'anni? Che senso comune (verificabile nella realtà) ha l'invocazione di Confindustria a riforme «strutturali», se una certa imprenditoria privata - barricata dentro un diritto societario ostile alla concorrenza - e la burocrazia pubblica, contraria alla produttività, sono entrambe conservatrici almeno quanto governo e opposizione, chiunque sia al governo e all'opposizione?
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